cara Gubbio, ti scrivo con la penna piena delle ultime gocce d’inchiostro, guardo vecchie fotografie graffiarsi sotto l’ennesima lacrima ballerina ed ancora cerco nello specchio la ragazzina con le trecce lunghe ed il collo del piede troppo alto per stare composta – cara sala rossa che mi hai mangiato i passi, rotto gli occhiali, fatto salire sopra il lampadario e trainare una barca dentro al letto – caro direttore d’orchestra meno matto delle mie domande e dei violini che suonavo mangiandomi le unghie – cari compagni di viaggio – caro sordo che mi disegnavi la musica sul bordo polveroso della trinità – cara cieca che mi ascoltavi il cuore esploderti addosso – caro filo di luce sotto la porta che mi hai dato sempre un motivo per alzarmi e procedere pur zoppa – quanto tempo è trascorso, eppure pare ieri – forse è così – restiamo immobili dove abbiamo sfiorato l’eternità