sei cresciuto dall’indifferenza di mamma e dal potere di papà, portavi i rasta per graffiare le banconote, prendevi brutti voti per rivendicare la libertà e facevi musica perché qualcuno ti ascoltasse urlare senza fare domande magari pagandoti da bere. poi hai costruito parquet bianchi, hai iniziato a togliere scarpe per camminarli, a piegare i pantaloni sporchi della strada per raggomitolarti pulito tra le lenzuola linde fino a spegnere la luce e chiudere gli occhi per dormire – perché la notte si deve dormire. hai amato uomini e donne passando dal sapone al gas. ti si poteva programmare, dicevi, eseguivi per gioco gli stati d’animo in precedenza concordati. non andavi mai oltre una conoscenza superficiale e se accadeva allora disfacevi la perfezione e tutto diveniva tremendamente fastidioso. volevi essere perdonato. improvvisamente diventavi una bestia e ripetevi con ossessione l’aggettivo possessivo mio e mia.
capitava talvolta fermassi l’intera giostra e mi chiedessi “perché?” allora ti carezzavo piano il capo consapevole che presto o tardi avrei fatto la stessa fine che destinavi a te stesso. iniziavo a raccontarti, come ti piaceva, delle favole più o meno legate alla reatlà e ti assopivi apparentemente redento tra le mie braccia.
mi hai concesso troppo per lasciarmi andare via senza morire di te.